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Il valore normale svolge una funzione antielusiva

La posizione della Cassazione sul concetto di "valore normale" ai fini fiscali

La Suprema Corte, negli ultimi anni, aveva sostenuto in alcune pronunce che il fondamento normativo per la rettifica dei corrispettivi afferenti le transazioni “domestiche” si ritroverebbe nell’art. 9 del D.P.R. 917/1986 (definizione di valore normale), il quale costituirebbe uno strumento generale di controllo dei menzionati corrispettivi.

Nella sentenza n. 17955/2013 è stato dapprima affermato che “il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo rileva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno” nel caso in cui si persegua, attraverso la determinazione di un prezzo “fuori mercato”, lo scopo di “far emergere utili presso la società del gruppo che sconta, anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione”. 

Tutto ciò in quanto vengono realizzate in ambito nazionale “le medesime forme di politiche sui prezzi, attuate assai di frequente in ambito internazionale mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro valore normale, onde spostare l’imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori, godono di esenzioni fiscali e subiscono minore tassazione”

Tuttavia, è stato successivamente sostenuto che la “specialità” della disciplina normativa del “transfer pricing estero” non ne consente una “applicazione diretta” a quello “interno o domestico”, come rappresentato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 23551/2012 e dall’Agenzia delle entrate nella circolare ministeriale n. 53/E/1999.

Il Collegio di legittimità ha, comunque, ritenuto che la menzionata normativa costituisce una clausola antielusiva “che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale”.

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Aggiornata il: 09/12/2020